Meditazione
biblica sull'abito dei monaci carmelitani

Ciò
vale eminentemente per il vestito dei monaci. Senza occuparci di
tutta la storia e l’evoluzione degli abiti monastici, e in
particolare del vestito dei carmelitani, propongo una meditazione
biblica partendo dalla forma attuale dell’abito carmelitano,
facendo riferimento al modello biblico al quale si ispira tutta la
tradizione carmelitana, cioè il Profeta Elia.
Il
vestito è composto attualmente da una tunica marrone scuro lunga
fino alle caviglie; di una cintura di pelle scura stretta ai fianchi;
di uno scapolare, cioè un pezzo di stoffa che sta sulle spalle (in
latino scapula) e che scende davanti e dietro fino ad un
palmo dal bordo della tunica; di un cappuccio separato che in origine
faceva parte dello scapolare; e di un mantello bianco in forma di
cappa con un cappuccio pure di colore bianco.
Il mantello
Iniziamo a parlare allora
di questo indumento del quale ci parla la Santa Scrittura nel momento
più importante della vita del profeta Elia, cioè la teofania sul
Monte Oreb: «Dopo il fuoco, ci fu il sussurro di una brezza leggera.
Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si
fermò all’ingresso della caverna.
Ed ecco, venne a lui una voce che gli diceva: "Che cosa fai qui, Elia?"» (1 Re 19,13).
Ed ecco, venne a lui una voce che gli diceva: "Che cosa fai qui, Elia?"» (1 Re 19,13).
Il
mantello del profeta è simbolo di quell’incontro misterioso con il
Signore Dio. Scendendo dal monte, Elia passa a fianco di Eliseo e gli
getta addosso questo mantello, per chiamarlo a diventare suo
discepolo e profeta al suo posto (1Re 19,19-21).
Alla
fine della vita terrena del profeta, Eliseo gli chiede "due
terzi del suo spirito”. «Mentre continuavano a camminare
conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero
fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo. Eliseo guardava
e… quando non lo vide più… raccolse il mantello, che era caduto
a Elia». Con questo indumento Eliseo apre le acque del Giordano,
come aveva fatto il suo maestro, e così mostra agli altri figli dei
profeti che "lo spirito di Elia si è posato su Eliseo" (2
Re 2,9-15).
Nella
Santa Scrittura si parla anche di un altro mantello, per esempio nel
Deuteronomio leggiamo: «Metterai fiocchi alle quattro estremità del
mantello con cui ti copri».(Dt 22,12). Nel libro dei Numeri se ne
specifica il motivo: "Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla
agli Israeliti dicendo loro che si facciano, di generazione in
generazione, una frangia ai lembi delle loro vesti e… quando le
guarderete, vi ricorderete di tutti i comandi del Signore e… li
metterete in pratica e sarete santi per il vostro Dio»" (Nm
15,37-41).
Dal
Vangelo sappiamo che anche Gesù portava un mantello come questo,
come ogni ebreo religioso. Ad esempio come leggiamo in Matteo:
«Ed
ecco, una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni, gli si
avvicinò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Diceva
infatti tra sé: "Se riuscirò anche solo a toccare il suo
mantello, sarò salvata"» (Mt 9,18-25).
Questa
donna tocca Gesù là dove è simbolizzata la sua fedeltà filiale
che compie totalmente i comandi di Dio Padre, perché lui è il vero
figlio di Israele. Perciò il mantello nella Sacra Scrittuara
può simbolizzare lo spirito profetico e l’incontro personale con
Dio, oppure il ricordo dei comandi e della fedeltà all’Alleanza
del Signore con Israele.
Prima
di essere elevați al Cielo,
Gesù promette ai suoi discepoli il dono dello Spirito Santo: “Ed
ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi
restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”
(Lc 24,49), così come fece Elia con Il suo discepolo Eliseo. In
questo senso il dono dello Spirito Santo è la legge nuova o legge
evangelica, scritta nei nostri cuori.
Un
dettaglio, in parte storico in parte leggendario ci mostra la
coscienza che i carmelitani avevano di questa simbologia: agli inizi
il mantello era di colore bianco con strisce grigio scuro. Alcuni
spiegavano che era a causa del fuoco nel quale Elia è stato rapito
in cielo e che ha bruciacchiato in parte il mantello prima che cada
per essere raccolto da Eliseo.

La
tonaca
Nella
prima parte di questa meditazione biblica sull’abito carmelitano,
abbiamo parlato della cappa a partire dal mantello di Elia. La Bibbia
ci dà altre indicazioni sul modo in cui vestiva il profeta di Tisbe.
All’inizio del secondo libro dei Re troviamo un episodio in cui
Elia è riconosciuto da Acaz proprio per il suo abbigliamento. Alla
domanda de re - "Com'era l'uomo che vi è venuto incontro?” -
i messaggeri rispondono: "Portava una veste di peli e una
cintura di cuoio gli cingeva i fianchi" - "Quello è Elia
il Tisbita!" replica il re.
Ricordiamo
che, fino al secolo scorso, anche la tonaca (o tunica) dell’abito
carmelitano era fatta rigorosamente di peli di animale, cioè di lana
grezza1. Essendo
Elia l’archetipo biblico del profeta, questa descrizione servirà a
identificare la qualità di profeta di alcuni personaggi biblici (Zc
13,4), come mostra l’esempio del Battista: “Giovanni portava un
vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai
fianchi” (Mt 3,4). Quindi, in primo luogo, questa veste si
riferisce alla “professione” profetica.
Tuttavia,
nel cercare il significato biblico di questo elemento dell’abito,
noi prenderemo la strada che ci fa risalire verso le origini.
Leggiamo infatti nel libro della Genesi che, dopo il peccato e prima
della cacciata dal giardino di Eden, “Il Signore Dio fece all’uomo
e alla donna tuniche di pelli e li vesti” (Gn 3,21).
Per
capire il significato teologico di questo vestito bisogna risalire al
senso della nudità originaria. Nel suo libretto Per una
teologia del vestito Erik PETERSON diceva che, nel
Paradiso terrestre, essere nudi non coincideva con l’essere
svestiti. L’uomo infatti era vestito della grazia e della giustizia
divina, che rendeva il corpo trasparente alla persona. La luce di
gloria risplendeva attraverso la corporeità. I corpi erano
epifanici. Per questo il testo biblico dice con molta profondità:
“Tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano
vergogna” (Gn 2,25).
Padre
Marko Rupnik usa un paragone molto efficace per spiegare questo
fatto2. Quando
guardiamo una candela accesa vediamo soltanto la luce della fiamma.
Se la candela viene spenta non resta più che lo stoppino nero, senza
luce. Ecco, così era il corpo quando ha perso la luce della gloria
di Dio, è rimasto senza la vita dello spirito che gli dava luce, è
rimasto un corpo mortale.
Ecco
perché le tuniche di pelli che il Signore fa all’uomo non indicano
soltanto la premurosa sollecitudine divina che continua a prendersi
cura della sua creatura, anche dopo il peccato. Sono soprattutto il
segno della mortalità che è diventata la condizione dell’uomo.
Alcuni Padri della Chiesa, come per esempio Gregorio di Nissa nel
Trattato sull’anima e la risurrezione, sottolineano che le
tuniche sono fatte con pelle di animali morti. Ciò indica la
mortalità come condizione dell’esistenza umana, non solo come
castigo ma anche come rimedio, in vista della promessa della
resurrezione. San Gregorio, che era stato fortemente marcato dalla
morte, in particolare quella della moglie e del figlio, legge la
mortalità alla luce del Mistero pasquale di Cristo. E’ l’uomo
vecchio che deve morire perché possa nascere l’uomo nuovo. Come
dice san Paolo ai Colossesi: “Vi siete infatti spogliati dell'uomo
vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova,
per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore (Col 3,9,
anche Ef 4,21-24). San Paolo si richiama alla grazia del battesimo,
in cui lo spogliarsi per essere immersi nell’acqua e poi rivestirsi
con la veste bianca faceva parte del rito sacramentale.
E’
interessante notare che anche l’entrata nella vita religiosa ha una
connotazione di passaggio da una vita all’altra. In Oriente
l’entrata nella vita monastica si presenta in gran parte come un
rito funebre, dove l’uomo vecchio, con la vita di prima, muore per
far spazio alla novità della vita in Cristo che si vuole abbracciare
nel monastero. Per questo la tradizione patristica mette in relazione
i consigli evangelici con il Mistero pasquale, perché essi esprimono
una sorgente di vita diversa, non naturale, ma ricevuta dall’essere
in Cristo.
Non
solo l’entrata nella vita religiosa, così come il battesimo, è
segnata da una morte in vista della nascita nel Figlio risorto, ma
tutta la vita religiosa si apre come un cammino nel segno della
dinamica pasquale. Per questo la tonaca monastica, e in particolare
quella carmelitana, di lana grezza e di colore marrone scuro o
grigio, è un richiamo alla morte. E’ un richiamo non solo alla
mortalità come condizione umana, ma anche alla mortalità accolta
coscientemente, in vista del rivestirsi dell’uomo nuovo secondo la
vita risorta di Cristo. E’ questo anche il vero senso della parola
mortificazione, come scelta di far morire gli atteggiamenti dell’uomo
vecchio che impediscono alla vita di grazia di svilupparsi
liberamente.
Quando
questo cammino, non è un volontarismo soggettivo, ma l’esodo
che Dio ci fa compiere verso la terra promessa, allora capiamo la
bella espressione del Deuteronomio: “Il tuo vestito non ti si è
logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi
quarant'anni” (Dt 8,4).
Lo
scopo è ritrovare lo spendore originario, come la veste sfolgorante
di Gesù al momento della Trasfigurazione, poco prima della sua
Passione. Per questo Giovanni Paolo II ha posto l’episodio della
Trasfigurazione del Signore all’inizio dell’esortazione Vita
Consecrata, come icona da contemplare per comprendere la vita
religiosa.
In
conclusione, la tonaca di lana grezza, che richiama la veste di peli
del profeta Elia, può essere vista come simbolo della mortalità
assunta volontariamente come cammino pasquale dall’uomo vecchio
all’uomo nuovo, per essere rivestiti della gloria del risorto.
Ritroviamo
così anche la dimensione profetica, che caratterizza la veste di
Elia, perché la vita consacrata è, in questo modo, rinuncia alla
vita naturale, “mondana”, per diventare profezia del Regno, cioè
della vita risorta.
Lo
scapolare
Nella
prima e nella seconda parte di questa meditazione biblica sull’abito
carmelitano abbiamo parlato del mantello e della tonaca, partendo dal
vestito del profeta Elia descritto nei libri dei Re. Parlando dello
scapolare non troviamo nel ciclo di Elia nessun riferimento diretto,
perché si tratta di una parte del vestito monastico che è stata
aggiunta in epoca medievale da diversi ordini monastici. Nell’Ordine
carmelitano è entrato ufficialmente a far parte dell’abito nella
seconda metà del XIII sec. e ha assunto ben presto un significato
mariano.
“Scapolare”
viene da «scapola» e indica quell'indumento formato da una striscia
di stoffa con un foro al centro per infilarci la testa e che ricopre
sia il petto che le spalle (in latino: scapulæ).
All’origine lo scapolare serviva generalmente per i tempi di
lavoro, così da proteggere l'abito e non insudiciarlo, come un
grembiule. Era quindi un indumento di servizio.
E’
da qui che prende spunto la nostra meditazione, rimandandoci alla
Lavanda dei piedi, che nel vangelo di Giovanni è al centro
dell’ultima cena. Leggiamo al capitolo 13: “Gesù sapendo che il
Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio
ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un
asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita” (Gv 13,3-4). Cogliamo
la solennità con cui l’evangelista introduce il gesto di Gesù che
depone le vesti per assumere l’indumento di servizio. Si percepisce
in questo gesto tutta la portata della teologia paolina dell’inno
ai Filippesi: “Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non
considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò
se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli
uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi
obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2, 5-8).
Ritornando
alla Lavanda dei piedi, è interessante notare che il versetto 12
riporta che Gesù, dopo aver lavato i piedi agli apostoli, riprese le
vesti, benché dai versetti precedenti non risulta che avesse deposto
la veste di servizio. Ciò significa che Gesù ha assunto
definitivamente l’essere servitore come un’identità che lo
definisce: “Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere
servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti"
(Mc 10,45).
Lungo
tutto il vangelo Gesù continua a insegnare ai suoi discepoli a
rivestirsi di questa identità, soprattutto attraverso le parabole.
San Paolo poi declina questo servizio in Cristo come amore reciproco:
“Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di
sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine,
di pazienza, sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente”
(Col 3,12-13).
Per
altro la Regola carmelitana cita proprio l’esempio di san Paolo al
numero 17 dove parla dell’importanza del lavoro nella vita
monastica.
Dicevamo
tuttavia che, nell’Ordine carmelitano, lo scapolare ha ricevuto ben
presto un significato mariano, in primo luogo come segno della
protezione della Vergine per l’Ordine dedicato al suo
servizio. Ritroviamo però, nello scapolare carmelitano, anche
questo significato di veste di servizio, di lavoro che Maria ha
assunto dedicando tutta la vita a Gesù, mettendo tutte le sue
energie al suo servizio, secondo la risposta data al momento
dell’Annunciazione: “Eccomi, sono la serva del Signore”.
Ecco
quindi che lo scapolare è un segno della premura di Maria che ci
aiuta a rispondere anche noi all’amore del Signore, che si è fatto
nostro servo e ci invita ad amarci reciprocamente: “Se dunque io,
il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete
lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi do un comandamento nuovo: che
vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche
voi gli uni gli altri” (Gv 13,14.34).
Ed
è proprio quello che Maria insegna ai discepoli-servitori alle nozze
di Cana: “Fate tutto quello che vi dirà” (Gv 2,5). Sono le
ultime parole di Maria nel Vangelo, come il suo testamento che
continua a farci entrare nel suo stesso essere la Serva del Signore.
di P. Stefano Conotter ocd